18 novembre 2009

e volentieri...



Caro Alberto,

mi chiedevi con un po’ di curiosità, vista la mia idiosincrasia per la scrittura di Baricco, di questo suo ultimo romanzo che ho letto perché quasi invitato da persone che avverto spesso come affini e di cui dunque mi fido.
Ti dico: per quanto non riesca a togliermi di dosso l’impressione che la scrittura “letteraria” di Baricco sia una scrittura che si guarda continuamente allo specchio, che anche quando è asciutta e pulita lo è in modo da farti sentire che è proprio asciutta e pulita (ti ricordi Gaber che si guarda allo specchio? “Ma sarò spettinato bene?”), malgrado questo effetto che non so se sia una mia fissa o sia davvero così, malgrado la trama (con le sue morti e le sue conversioni) sia spesso prevedibile, il libro è bello.
Il libro, come saprai, è il racconto di un passaggio, di una trasformazione. Di un passaggio e di una trasformazione peculiare. Del passaggio da una identità definita (il personaggio e i suoi amici sono, come sai, tipi da parrocchia, da chitarre, da campeggio con i preti) a un mondo in cui quelle identità si smarriscono e sopravvivono solo (ma non è poco) come ricordo.
La forza del libro sta secondo me nel fatto che nel rito di passaggio che si tende a leggere come una sorta di perdita dell’innocenza (ammesso e non concesso che una innocenza “prima” esista) in quel passare il varco verso una qualche forma di età adulta (ammesso e non concesso che quel passaggio conduca davvero all’età adulta) ci si riconosce tutti.
Il “noi” di questo libro non è un “noi” ideologico. Quello dentro il quale Baricco conduce è un “noi” che davvero scavalca il “noi” dei personaggi. E questo, se ci pensi, è tanto più impressionante se consideri che tutto il romanzo è giocato proprio sulla contrapposizione, avvertita davvero come esistenzialmente determinante dalla voce narrante e dai suoi amici, tra “noi” e “loro”, tra “noi” e “gli altri”. “Noi” appunto dice quelli che vanno in Chiesa, che riescono a trovare un senso coerente alle loro vite nel volontariato più umile, che credono, che suonano la chitarra in quel modo là che tutti sappiamo, che cantano senza vergognarsi, che fanno le passeggiate, che vanno in montagna, che si vestono in quel modo che non si dovrebbe vedere e che si vede lontano un miglio.
Beh, se non è un “noi” ideologico, dirai, è un noi addirittura settario. E qui è la bravura, secondo me, di Baricco. Perché in quel “noi” così definito e chiuso ci riconosciamo tutti, anche chi quel mondo l’ha intravisto solo di striscio o non l’ha incontrato affatto. Perché è il rito di passaggio quello che conta. E la scelta di Baricco di raccontarlo, questo rito, all’interno di un “noi” che si definisce in modo così identitario e identificante (e dunque necessariamente esclusivo ed escludente) consente di rappresentarlo vividamente, come forse altrimenti non sarebbe stato possibile. Quel “noi” così compatto da sembrare impermeabile al resto, è in realtà un “noi” che appartiene a tutti. Perché, tutti, ho l’impressione, ci siamo andati definendo per contrapposizione ad “altri”.
Ma quella cosa che ti dicevo all’inizio della scrittura di Baricco mi ha attraversato per tutta la lettura. Come talvolta un senso di artificiosità che non potevo non trovare fastidioso.
L’io narrante sembra quasi sempre dentro e fuori dall’io di cui parla. “Ovvio”, si dirà, quell’io è sparito nel rito di passaggio. Ora è un altro io quello che parla, che racconta e che ricorda. Ma l’io narrante, pur tenendo conto di questo scarto, sembra non avere una lingua che corrisponde a quell’io che è il protagonista e che dovrebbe invece essere lo stesso io. Pur considerando la dimensione del ricordo e dunque la distanza e la separazione dell’io che racconta, dell’io narrante, si avverte una discrasia che suona retorica e “letteraria” tra l’io che vive questa storia e l’io che ne parla. Si ha insomma la sensazione che quell’io non sia mai del tutto dentro all’io di cui sta parlando. Che quell’io sia appunto uno stratagemma, un espediente. Che sia troppo lontano nelle sue considerazioni e nel suo sguardo sul mondo da quell’io lì di cui si parla.
Per dirti: se vai a pag. 42 troverai delle considerazioni (che più sensate non si può) sulla musica chitarrosa delle chiese che sembra avere un senso solo lì e non averne alcuno fuori di lì. E insieme a queste considerazioni, delle piccole riflessioni sull’estetica kitsch della Chiesa contemporanea: «la stessa Chiesa che una volta commissionava gli affreschi di Rubens e le cupole di Borromini adesso si affligge in un’estetica evangelica vagamente svedese – ai limiti del protestante. Roba che non ha rapporto con la bellezza vera più di quanta ne abbia una panca in rovere, o un aratro ben fatto».
Ti vedo già sorridere compiaciuto nel leggere queste cose. Così come sorridiamo compiaciuti sulle considerazioni che Baricco fa su Repubblica quando parla dei barbari o dei finanziamenti ai teatri dell’opera. Ma con quell’io lì, quello che è dentro questa storia, cosa c’entrano queste considerazioni?
O ancora: è davvero quell’io lì che alla fine del romanzo, a pag. 137, si permette di pensare riferendosi alla gente di chiesa, a quelli che frequentano le messe, «ma va detto che quella è gente educata, conosce ancora la misura di ciò che è appropriato – un’arte che va smarrendosi».
Una frase che viene da applaudire pensando alla faccia di Baricco che la dice rallentando sul finale in tv, con la pausa giusta al posto del segno di sospensione, serrando le labbra alla fine, con il sorriso compiaciuto di chi sa che ha toccato il tasto giusto.
Una bella frase degna del miglior Baricco, insomma. Non di quell’io lì che racconta questa storia.

Leggilo. Mi dirai.


Ciao

Luca

2 commenti:

goodnight ha detto...

"Noi" come l'ultimo romanzo di Veltroni... vorrà dire qualche cosa? ciao!

alfa ha detto...

'azz, inquietante per tutti e due, direi!