25 febbraio 2010
decolorazione
Il volto pasolinianamente scavato di Massimo Ranieri guarda il se stesso di quarant'anni prima. La tele-visione annulla il gap spazio temporale semplicemento decolorando l'adesso. Il prima fa ancora un figurone, comunque.
22 febbraio 2010
banda
15 febbraio 2010
"Io non mi pento mai di niente".
"Tutto è successo mercoledì 10 febbraio quando, all'interno della puntata, Bigazzi ha spiegato - ricordando una tradizione del passato - come si fa a cucinare, appunto, il gatto. Ricordando quando "lo si teneva per tre giorni nell'acqua del torrente" per preparare al meglio "le sue carnine bianche". Inevitabili le proteste, esplose anche sul web, di tutto il mondo animalista. Fino alla sospensione di Beppe Bigazzi, annunciata nel corso della puntata odierna dalla conduttrice Elisa Isoardi."
tutta la mia solidarietà a Bigazzi che ci ha ricordato che non esistono animali di serie A e animali di serie B che si possono tranquillamente macellare e gustare a tavola. e che il peraltro antipaticissimo Bigazzi sia costretto a precisare "io non mi pento mai di niente" la dice lunga sul fanatismo ideologico degli autonominatisi "animalisti" che pare non abbiano nulla da obbiettare quando nello stesso programma si illustrano le ricette per cucinare un povero pollo.
ah, naturalmente io sono un carnivoro e mi farebbe molta impressione mangiare un gatto, ma questo è un altro discorso...
08 febbraio 2010
Franco Basaglia
"Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della malattia e del ritmo dell'internamento"
29 gennaio 2010
The Kingdom: horror for the masses
viste in dvd le cinque puntate della versione italiana di questo ferruginoso meta horror sbriciolato dalle perverse dita di Lars Von Trier. E' del 1994 e il regista ammetterà di aver visto ed ammirato il di poco precedente capolavoro lynchiano Twin Peaks, non del tutto inutilmente. Il risultato è più vicino al Ghezzi fuori sincrono (in piena notte inquietante e vagamente minaccioso) che alle distorsioni spaziotempo di Lynch, ma un certo fascino malsano tracima dallo schermo lentamente puntata dopo puntata. Only for fans.
19 gennaio 2010
13 gennaio 2010
il succo del suo discorso
"Con la crisi attuale - è il succo del suo discorso - una riduzione delle tasse è fuori discussione"
01 gennaio 2010
'00
naturalmente domani la rifarei diversa, ma insomma questi sono i dieci degli anni '00 per me. Non è una classifica che intende riflettere il "valore", ma la frequenza di ascolto e la resistenza alla distanza nel ripostiglio memo-sensoriale del mio cervello dedicato alla musica.
29 dicembre 2009
ma allora...
20 dicembre 2009
tenerezze
L'ottantenne Marco con candido codino compare dal mellifluo Fazio. Lo guardo con immutato affetto e, intenerito, non gli rimprovero più niente...
13 dicembre 2009
11 dicembre 2009
26 novembre 2009
Nutbush City Limits
18 novembre 2009
e volentieri...
Caro Alberto,
mi chiedevi con un po’ di curiosità, vista la mia idiosincrasia per la scrittura di Baricco, di questo suo ultimo romanzo che ho letto perché quasi invitato da persone che avverto spesso come affini e di cui dunque mi fido.
Ti dico: per quanto non riesca a togliermi di dosso l’impressione che la scrittura “letteraria” di Baricco sia una scrittura che si guarda continuamente allo specchio, che anche quando è asciutta e pulita lo è in modo da farti sentire che è proprio asciutta e pulita (ti ricordi Gaber che si guarda allo specchio? “Ma sarò spettinato bene?”), malgrado questo effetto che non so se sia una mia fissa o sia davvero così, malgrado la trama (con le sue morti e le sue conversioni) sia spesso prevedibile, il libro è bello.
Il libro, come saprai, è il racconto di un passaggio, di una trasformazione. Di un passaggio e di una trasformazione peculiare. Del passaggio da una identità definita (il personaggio e i suoi amici sono, come sai, tipi da parrocchia, da chitarre, da campeggio con i preti) a un mondo in cui quelle identità si smarriscono e sopravvivono solo (ma non è poco) come ricordo.
La forza del libro sta secondo me nel fatto che nel rito di passaggio che si tende a leggere come una sorta di perdita dell’innocenza (ammesso e non concesso che una innocenza “prima” esista) in quel passare il varco verso una qualche forma di età adulta (ammesso e non concesso che quel passaggio conduca davvero all’età adulta) ci si riconosce tutti.
Il “noi” di questo libro non è un “noi” ideologico. Quello dentro il quale Baricco conduce è un “noi” che davvero scavalca il “noi” dei personaggi. E questo, se ci pensi, è tanto più impressionante se consideri che tutto il romanzo è giocato proprio sulla contrapposizione, avvertita davvero come esistenzialmente determinante dalla voce narrante e dai suoi amici, tra “noi” e “loro”, tra “noi” e “gli altri”. “Noi” appunto dice quelli che vanno in Chiesa, che riescono a trovare un senso coerente alle loro vite nel volontariato più umile, che credono, che suonano la chitarra in quel modo là che tutti sappiamo, che cantano senza vergognarsi, che fanno le passeggiate, che vanno in montagna, che si vestono in quel modo che non si dovrebbe vedere e che si vede lontano un miglio.
Beh, se non è un “noi” ideologico, dirai, è un noi addirittura settario. E qui è la bravura, secondo me, di Baricco. Perché in quel “noi” così definito e chiuso ci riconosciamo tutti, anche chi quel mondo l’ha intravisto solo di striscio o non l’ha incontrato affatto. Perché è il rito di passaggio quello che conta. E la scelta di Baricco di raccontarlo, questo rito, all’interno di un “noi” che si definisce in modo così identitario e identificante (e dunque necessariamente esclusivo ed escludente) consente di rappresentarlo vividamente, come forse altrimenti non sarebbe stato possibile. Quel “noi” così compatto da sembrare impermeabile al resto, è in realtà un “noi” che appartiene a tutti. Perché, tutti, ho l’impressione, ci siamo andati definendo per contrapposizione ad “altri”.
Ma quella cosa che ti dicevo all’inizio della scrittura di Baricco mi ha attraversato per tutta la lettura. Come talvolta un senso di artificiosità che non potevo non trovare fastidioso.
L’io narrante sembra quasi sempre dentro e fuori dall’io di cui parla. “Ovvio”, si dirà, quell’io è sparito nel rito di passaggio. Ora è un altro io quello che parla, che racconta e che ricorda. Ma l’io narrante, pur tenendo conto di questo scarto, sembra non avere una lingua che corrisponde a quell’io che è il protagonista e che dovrebbe invece essere lo stesso io. Pur considerando la dimensione del ricordo e dunque la distanza e la separazione dell’io che racconta, dell’io narrante, si avverte una discrasia che suona retorica e “letteraria” tra l’io che vive questa storia e l’io che ne parla. Si ha insomma la sensazione che quell’io non sia mai del tutto dentro all’io di cui sta parlando. Che quell’io sia appunto uno stratagemma, un espediente. Che sia troppo lontano nelle sue considerazioni e nel suo sguardo sul mondo da quell’io lì di cui si parla.
Per dirti: se vai a pag. 42 troverai delle considerazioni (che più sensate non si può) sulla musica chitarrosa delle chiese che sembra avere un senso solo lì e non averne alcuno fuori di lì. E insieme a queste considerazioni, delle piccole riflessioni sull’estetica kitsch della Chiesa contemporanea: «la stessa Chiesa che una volta commissionava gli affreschi di Rubens e le cupole di Borromini adesso si affligge in un’estetica evangelica vagamente svedese – ai limiti del protestante. Roba che non ha rapporto con la bellezza vera più di quanta ne abbia una panca in rovere, o un aratro ben fatto».
Ti vedo già sorridere compiaciuto nel leggere queste cose. Così come sorridiamo compiaciuti sulle considerazioni che Baricco fa su Repubblica quando parla dei barbari o dei finanziamenti ai teatri dell’opera. Ma con quell’io lì, quello che è dentro questa storia, cosa c’entrano queste considerazioni?
O ancora: è davvero quell’io lì che alla fine del romanzo, a pag. 137, si permette di pensare riferendosi alla gente di chiesa, a quelli che frequentano le messe, «ma va detto che quella è gente educata, conosce ancora la misura di ciò che è appropriato – un’arte che va smarrendosi».
Una frase che viene da applaudire pensando alla faccia di Baricco che la dice rallentando sul finale in tv, con la pausa giusta al posto del segno di sospensione, serrando le labbra alla fine, con il sorriso compiaciuto di chi sa che ha toccato il tasto giusto.
Una bella frase degna del miglior Baricco, insomma. Non di quell’io lì che racconta questa storia.
Leggilo. Mi dirai.
Ciao
Luca
15 novembre 2009
13 novembre 2009
03 novembre 2009
la croce e il nulla
18 ottobre 2009
Ashes of time

Il ricordo di 2046 di Wong Kar Wai mi accompagna da quella sera del 2004 quando, uscito dalla sala di proiezione, ho cominciato ad accumulare densi strati di immagini e dialoghi dal film quasi senza accorgermene, come se la pellicola sedimentasse dentro di me per non abbandonarmi più. Come succede con alcuni film (o meglio, alcune opere) s'instaura un rapporto intimo e segreto, misterioso e complesso fatto di corrispondenze e rimandi sotterranei ai quali non si riesce a rinunciare. E quando abbiamo pensato a questi numeri di Cabaret Voltaire dedicati al tema della memoria, ho subito avuto l'impulso di parlare di questo film, impulso che è diventato quasi un'ossessione soprattutto perché ho deciso che non lo avrei rivisto, lo avrei, appunto, ricordato. La stratificazione del film e la complessità degli esili intrecci affidati alle leggi del caso, gli incontri fugaci e i dialoghi allusivi ad un altrove nel tempo e nello spazio, costruiscono un'architettura sofisticata e rarefatta fatta di tempo e di memoria. Tutto il film allude a ciò che è trascorso, al ricordo dell'incontro mancato, alla promessa venuta meno, all'istante come contenitore di un passato eternamente presente a noi stessi e dolorosamente e irrimediabilmente perduto e lontano. Eccessivo, ridondante, pieno di dettagli, imperfetto, a tratti irritante nella sua ricerca estetizzante di legare a sé lo sguardo dello spettatore, non permette l'abbandono, non consente di smarrirsi fra rallenty, ripetizioni, musiche pericolosamente inclini al kitsch e sigarette, e pioggia. Tutto ciò in una Hong Kong glamour e fatiscente, quintessenza teatrale di un'intenzione estetica dichiaratamente melò, dunque giocata sull'impossibilità dell'amore, sul perdersi e sulla sua conseguenza diretta, il ricordare. 2046 gioca con il tempo, tempo trascorso e tempo immobile, sospeso, tutto è dolorosamente già passato, già ricordo. Nell'attimo stesso dell'incontro, nella malinconica gioia dell'amplesso, gli amanti di Wong Kar Wai sono già ceneri del tempo, frammenti separati di un futuro ricordo.
Corriere vicentino novembre 2009
30 settembre 2009
20 settembre 2009
elite
09 settembre 2009
nulla più
Nostalgie inevitabili per chi si acciottolava nella poltrona per vedere Rischiatutto, poi Mike è stato soprattutto il compagno d'avventura di Silvio nella tv commerciale e generalista, senza infamia e senza lodi. Anche perchè la televisione si apprestava diventare qualcos'altro e a perdere "sacralità" in nome dello spettacolo (a tutti i costi), meglio se di grana grossa. Colpo d'ala la sua collaborazione con Fiorello, ma, esaurite le celebrazioni e le santificazioni, credo si dovrà parlare di un grande professionista, nulla più.
01 settembre 2009
26 agosto 2009
Dead Kennedy

You call yourself the Moral Majority
We call ourselves the people in the real world
Trying to rub us out, but we're going to survive
God must be dead if you're alive
Dead Kennedy, Moral Majority,1981
20 agosto 2009
19 agosto 2009
17 agosto 2009
life on mars
Visto per caso ho cominciato a seguirlo qualche tempo fa, l'idea è piuttosto abusata: il salto temporale all'indietro, nella Manchester del 1973. Quindi canzoni che vanno vigliaccamente dritte al cuore dello spettatore agée, ambientazione perfettamente seventy tra tappezzerie e moquette so british... il finale è ambiguo e aperto, anche se la serie pare sia definitivamente chiusa dopo sole due stagioni. Comunque ti teneva lì, e quando è partita Life on Mars? una lacrimuccia vintage è pudicamente scesa.